Dalla
fondazione allo scudetto
LA FONDAZIONE: 22 LUGLIO 1927
L'Associazione Sportiva Roma non poteva nascere in un angolo qualsiasi della
solenne Roma. I due massimi promotori, Ulisse Igliori e Italo Foschi, politicamente
potenti, trovarono la sede pronta al n. 35 di via Uffici del Vicario, a poche
decine di metri dal magno palazzo di Montecitorio. Oggi il Parlamento non
gode di ottima stampa, ma nel 1927 il comune cittadino che attraversava la
piazza era indotto a camminare in punta di piedi. La prima sede giallo rossa
fu messa a disposizione dai fratelli Piero e Giorgio Crostarosa, di ragguardevole
censo. Sulla esatta data di nascita vi è qualche divergenza, questione
di settimane. Comunque il lettore pignolo che voglia festeggiare l'Anniversario
della società nel giorno giusto scelga il 22 luglio, anche se in effetti
la nuova Roma era in movimento, alle prese con i problemi di costituzione,
da un paio di mesi. Il 22 luglio è la data ufficiale e documentata.
Risulta nell'atto stilato e firmato da Italo Foschi, alla presenza dei Crostarosa
e di pochi altri pionieri che nei successivi tempi belli accetteranno volentieri
di essere chiamati «ventisettisti».
Non risulta che nel ristretto ambiente regnasse speciale animazione, benché
dopo la firma i padroni di casa offrissero abbondante champagne. Il fatto
è che sulla maggioranza dei presenti gravava l'imposizione piombata
dall'alto che smembrava e liquidava tre popolari società romane: U.S.
Alba, S.S. Fortitudo e Roman Club.
Senza possibilità di appello si ordinava ai rispettivi dirigenti di
seppellire ogni rivalità e di fondersi, ciascuno apportando i propri
uomini e beni per dare vita a una società che «in assoluta concordia
d'intenti fosse degna di inserirsi subito alla pari nel ristretto gruppo dei
maggiori sodalizi sportivi nazionali». In parole povere il fascismo,
già orientato a darsi corpo e sostegno puntando anche sull'esaltazione
della «Romanità » con la «R» maiuscola, non
intendeva accettare che i campi di calcio capitolini continuassero ad essere
terra di saccheggio per le altezzose squadre del nord. Gioverà in proposito
ricordare che nella stagione precedente l'Alba, arrivata alla finalissima
del campionato su due gironi, era stata umiliata dalla Juventus per 1-7 e
0-5!
In genere chi parla o scrive delle origini della A.S. Roma si limita a indicare
i nomi delle tre Società che unendosi la fondarono. Diciamone qualcosa
di più, poiché fu il loro sacrificio a consentire il grande
evento. Il Roman Club era presieduto da un avvocato, Vittorio Scialoia, e
aveva il campo, detto dei Due Pini, all'ombra dello stadio che prima si chiamò
«Nazionale», più tardi «del partito» ecc. ecc.
Per l'epoca il «Due Pini» era un complesso non privo di eleganza,
con spogliatoi angusti ma dignitosi. L'impianto permetteva anche il . tennis;
l'affluenza femminile a buon livello spesso favoriva la presenza di belle
ragazze alle partite di calcio, anche se i due sport apparivano divisi da
un abisso. Il particolare e la «erre moscia» di alcuni soci, una
certa disponibilità di soldi, il prestigio di un buon capitano-giocatore
di origine svizzera, Meille, aureolato per il fatto di essere quel che oggi
si direbbe un «produttore» nel cinema, avevano collocato il Roman
Club in una cornice aristocratica. Presagio interessante: i colori giallorossi
(un rosso cupo che poteva avvicinarsi al marrone, con risvolti francamente
gialli). La squadra era rispettabile, ma non irresistibile. Il gioco duro
dell'epoca non si addiceva alla quasi totalità dei suoi giocatori,
nè il clima sociale lo attizzava, almeno fino a quando le crescenti
rivalità (soprattutto contro la Lazio che, forte di una buona organizzazione,
si teneva altera su un piano di superiorità) non indussero i dirigenti
a soffiare i migliori giocatori alle consorelle con adescamenti di vario genere.
Ma fecero sempre le cose con eleganza tanto che mai esplosero scandali o sospetti
dichiarati di professionismo, a quei tempi considerato squalificante.
Sul polo opposto in linea sociale andava collocata l'Alba, la società
dai colori biancoverdi che dopo origini di periferia, trovò un posto
al sole subito dopo la fine della guerra 15-18. Il mecenate, è giusto
ricordarlo, fu Umberto Farneti proprietario di una rinomata bottiglieria (pizza
e vino dei Castelli) in via del Gambero. Il personaggio meriterebbe un capitolo
a parte: ruvido, romanesco arrabbiato, prodigò denaro sotto gli occhi
esterrefatti della moglie che era invece l'economia fatta donna, deciso a
dare a Roma una grande squadra che, dopo aver messo in un cantuccio l'aborrita
Lazio, avrebbe lottato a testa alta e con probabilità di successo contro
gli squadroni, i «nordoni», come si diceva allora. Portò
via giocatori a tutti nell'ambito romano, ebbe tra alti e bassi la soddisfazione
di arrivare a finali di tornei e di campionati; ma soprattutto visse liete
giornate quando la commissione tecnica della Nazionale (che aveva in Baccani
un membro del sud) convocò due pupilli biancoverdi, Degni e Corbyons,
ad un raduno di selezione azzurra. Fu un fatto grosso per gli sportivi romani
anche se sul momento non ebbe sviluppi. Farneti resta comunque l'uomo che
vide più lontano sulla via che il calcio romano doveva intraprendere
per assurgere a livello nazionale. Nel 1927 il «gerarca» Ulisse
Igliori era il presidente dell'Alba.
Il terzetto si conclude all'ombra del Vaticano, visto che la Fortitudo aveva
il suo campetto, niente male, alla Madonna del Riposo, nella zona che è
oggi prediletta dai costruttori Lenzini. Il suo stato maggiore fu composto
per parecchi anni da religiosi. Fratel Damaso e il dinamico Frà Porfilio
erano i più autorevoli e i più noti. La «conciliazione»
era ancora lontana, anche se il regime aveva già provveduto a liquidare
giornali tipo «L'Asino», bandiera di un diffuso anticlericalismo.
Non può sorprendere quindi che i rossoblu della Fortitudo e i loro
frati fossero vittime di invettive sanguinose in un clima ardente, quando
ogni partita era un derby. Ma i frati non deflettevano e la Fortitudo visse
stagioni di gloria, lanciando giocatori di prim'ordine; su tutti basterà
citare Attilio Ferraris, l'idolo di Borgo Pio, che quando la Roma nacque aveva
già indossato la maglia azzurra (9 maggio 1926 a Milano contro la Svizzera
3-2, giocando parte di un tempo accanto a Fulvio Bernardini). Nel 1927 presidente
era il marchese Sacchetti, grosso nome dell'aristocrazia papalina. Ma l'elemento
fattivo era appunto quell' Italo Foschi che abbiamo già trovato in
via Uffici del Vicario il 22 luglio. Sincero appassionato di sport, buon organizzatore,
fornito di discreti mezzi finanziari, aveva dato alla Fortitudo un'organizzazione
seria, da far invidia a quella della Lazio, che se ne stava intanto alla finestra
attendendo a piè fermo la nuovissima rivale. Poli sportiva fervida,
ente morale dal 1921, godeva di grossi rampini nelle alte sfere del potere.
Nessuno pensò per essa a fusioni o assorbimenti. E del resto fu mossa
avveduta assicurare a Roma la presenza di due grosse squadre.
Di passaggio è il caso di ricordare che nello stesso periodo, a parte
le idee di grandezza, si verificarono altre fusioni. Le andava imponendo la
crescente popolarità del calcio e la necessità di adeguarsi
nel senso dell' unione che fa o dovrebbe fare, la forza. Così per restare
a Roma, la D.S. Romana e la Pro Roma; così l'Audace del non dimenticato
Felice Tonetti che si rifugiò sotto le ali dell'Alba, insieme alla
battagliera Juventus di Antonino Sidoti che già il Roman aveva saccheggiato.
Anche a Genova si registrò una fusione importante tra Doria e Sampierdarenese,
volta a fronteggiare lo straripante Genoa Club. Ma i dirigenti litigarono
subito sul nome ed ebbero l'infelice idea di ricorrere all'arbitrato del segretario
fascista Augusto Turati. Il personaggio, evidentemente euforico, scelse un
nome molto impegnativo: «Dominante», che non portò fortuna.
Già nel '30 fu mutato in «Liguria», fino alla decisione
più saggia che nel 1946 condusse alla nascita della Sampdoria. Altri
esempi non mancherebbero ma è ora di tornare in via Uffici del Vicario
35.
Il primo grosso, grossissimo problema fu quello di scegliere i giocatori da
mantenere in forza alla Roma sistemando altrove gli altri.
In tempi di libera democrazia sarebbero successe scene turche, ognuno dei
dirigenti battendosi a favore dei giocatori del proprio ceppo. Ma Italo Foschi
era un volpone. Nei casi difficili rimandava la decisione all'indomani, poi
a volte di altri due o tre giorni. Infine arrivava, chiamava a conciliabolo
il dirigente riottoso e con aria di mistero gli sussurrava: «Ho chiesto
consiglio là dove immagini, e mi hanno consigliato di mollare il tizio
e tenere Caio... Tu mi capisci che non è il caso di discutere».
Il plotone sul quale si dovette operare era folto, non meno di sessanta unità.
Dopo il travaglio di cui si è detto, risultò che la Roma avrebbe
assorbito ventotto giocatori: cinque del Roman, dieci dell'Alba, tredici della
Fortitudo. E precisamente, dal Roman: Bossi, Carpi, Fosso, Isnaldi e Maddaluno;
dall'Alba: Ballante, Bianchi I, Corbyons, Chini, Degni, Fasanelli, Mattei,
Rovida, Ziroli e Celestini; dalla Fortitudo: Rapetti, Bramante, Bianchi II,
Cappa, Canestrelli, De Micheli, Ferraris IV, Preti, Scocco, Scardola, Sbrana,
Vittori e Zamporlini. Non sembra il caso di tentare qui analisi e graduatorie
di valori. Si andava dai numerosi elementi già affermati o addirittura
in evidenza sul piano nazionale alle semplici promesse e a un limitato gruppetto
che doveva l'ingaggio a ragionevoli motivi di equilibrio (e che fu subito
messo in archivio).
Noi dopo 50 anni li accomuniamo tutti in un simbolico abbraccio di simpatia.
Furono i primi a battersi per i colori di Roma affrontando con crescente fierezza
le ingrate trasferte, dove spesso pubblici prevenuti sfogavano contro i giallorossi
amarezze e antipatie che nulla avevano a che vedere con lo sport.
Fu presto ufficiale che il posto lasciato libero in Divisione Nazionale dalla
fusione delle due società genovesi, veniva «per titoli»
assegnato alla Roma. Il problema dell'allenatore non produsse affanno. Fra
i tecnici a disposizione (Ging della Fortitudo, Piselli dell'Alba e Beki del
Roman) , l'incertezza fu superata perché intervenne Igliori prospettando
un grosso nome, William Garbutt, inglese purosangue e molto stimato dopo due
anni di permanenza nel Genoa.
Si può concludere questa carrellata sui primissimi vagiti della neonata
Roma dando un'occhiata ai quadri dei dirigenti. Presidente onorario fu un
gerarca, Umberto Guglielmotti, sul quale evidentemente si contava per le indispensabili
protezioni nel difficile avvio. Presidente effettivo Italo Foschi; Ulisse
Igliori amministratore. Nutrita la commissione tecnica presieduta da Piero
Crostarosa: in essa troviamo per la prima volta ufficialmente il nome di Vincenzo
Biancone, del quale è certamente superfluo ricordare la lunga vita
spesa quasi interamente per la Roma. Addirittura impressionante la «commissione
di finanza»; presieduta dal banchiere Enrico Giammei annoverava ben
quindici membri dei quali, almeno nella grande maggioranza, si parlava con
molto rispetto nella Borsa di Piazza di Pietra. Evidentemente Italo Foschi,
che va riconosciuto come l'artefice n. 1 della Roma, aveva già intuito
che per tenere in piedi con prestigio una grossa squadra di calcio sarebbero
occorsi soldi, molti soldi; sempre più soldi. I tifosi giallorossi
lo ricordino con gratitudine. Dopo una decorosa vita politica che lo aveva
costretto a lasciare Roma, ritiratosi a vita privata, morì il 20 marzo
1949 nella tribuna dello stadio di via Flaminia. Si disse che aveva appena
appreso la notizia della Roma battuta dalla Sampdoria a Marassi per 2-0. Fu
un caso, pensiamo; ma il destino crea a volte strani accostamenti.
Tratto dal libro AS Roma da Testaccio all'Olimpico (libro edito nel 1977)
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